Discography Ranking: Red House Painters

Il percorso che conduce un artista da un’idea alla sua trasformazione in prodotto finito può essere più o meno lungo. Che si tratti del seme di un abbagliante capolavoro o di una tremenda catastrofe, esso ha bisogno di cure e attenzioni. Spesso, le cose stanno così. Talvolta, un’opera apparentemente abbozzata, generata al solo scopo di fungere da mappa del continente creativo dell’autore, può in realtà contenere tutti i tratti peculiari di una creazione essenziale, imprescindibile. È il caso di Down Colorful Hill, opera prima dei Red House Painters, passata dalle mani di Mark Eitzel, frontmant dei crepuscolari American Music Club, a quelle di Ivo Watts-Russell, boss della 4AD. “Non avevo mai ricevuto un demo lungo quasi novanta minuti”, dichiarerà quest’ultimo. Nonostante abbia subito qualche taglio e un lieve lavoro di restyling, Down Colorful Hill è, in tutto e per tutto, un demo: un’opera umile, dimessa, persino fragile. Tre aggettivi che sempre caratterizzeranno l’esperienza artistica dei Red House Painters, persino nei momenti più vivaci e passionali.

La band nasce per iniziativa di Mark Kozelek, nativo dell’Ohio, poeta antispettacolare e al contempo disperato, ex tossicodipendente spiritualmente vicino al pacato struggimento di Leonard Cohen e alla trasognata agonia di Nick Drake (del quale, tuttavia, Kozelek non riconoscerà mai l’influsso, preferendo citare, invece, Cat Stevens e John Denvers). Ad Atlanta, città nella quale si era trasferito alla testa dei God Forbid, il Nostro fa la conoscenza del batterista Anthony Koutsos. Si sposta poi a San Francisco, dove incontra il chitarrista Gordon Mack e il bassista Jerry Vessel. Il moniker scelto dai quattro proviene dall’annuncio pubblicitario di una ditta di imbianchini, quasi a sottolineare non solo la natura domestica e vulnerabile di gran parte del materiale che la band sfornerà, ma anche la stessa immagine e personalità del gruppo. è sufficiente, infatti, dare un’occhiata alle foto promozionali che ritraggono Kozelek e soci e alle stesse immagini di copertina dei loro album. Nelle prime, prevalgono volti cupi, seriosi e al tempo stesso popolari, abiti scuri e sobri, pose che nulla concedono allo stereotipo di una sfrontata band rock. Le seconde, invece, privilegiano immagini scarne e quotidiane: un’imponente quanto vetusto letto matrimoniale, una giostra probabilmente abbandonata, la bandiera americana inquadrata tramite una lente tonda; tutti scatti eseguiti in bianco e nero oppure in tristi sfumature di ocra, verde e marrone, a comunicare una visione della realtà trasfigurata dall’ottica del ricordo e della nostalgia.

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Nella musica dei Red House Painters si fondono la paralisi esistenziale dei Codeine, padri dello slocore, e l’ineluttabilità del male espressa con sincera rassegnazione dagli stessi American Music Club; ma l’universo melodico e compositivo degli Imbianchini non si esaurisce nel legame con quei due seminali acts del rock anni novanta: nell’opera di Kozelek e soci si possono avvertire echi del Neil Young più sgraziato e nevroticamente chitarristico, degli impalpabili lenti degli anni ’50, di arioso e spigliato country e persino di certe sonorità orientaleggianti che esaltano la qualità severa e al tempo stesso dimessa della poetica esistenziale di Kozelek, poetica che potremmo definire sostanzialmente “diaristica”; paranoicamente dedita alla registrazione di fatti quotidiani, ricordi, impressioni, dubbi; talvolta compiuta con un profluvio di immagini iperrealistiche, altre volte con pochi, criptici tratti che sembrano rendere ancora più acuto il tormento psichico dell’autore.

L’inizio della fine giungerà verso la fine degli anni ’90, accelerata, con ogni probabilità, dalle beghe legali che costrinsero la band a posticipare l’uscita di Old Ramon di ben tre anni (esso sarà pubblicato da Sub Pop soltanto nel 2001). Nel 2000 Kozelek aveva già pubblicato un bizzarro album solista, What’s Next to the Moon, interamente composto da cover acustiche di brani degli AC/DC. Nel 2003, insieme a Tim Mooney e Geoff Stanfield, vara poi il progetto Sun Kil Moon (a detta dello stesso Kozelek, un semplice prosieguo della sua attività con i Red House Painters) Kozelek si toglierà persino lo sfizio di apparire in due film, Almost Famous e Vanilla Sky, entrambi diretti da Cameron Crowe; mentre il batterista Anthony Koutsos paga oggi le bollette lavorando come agente immobiliare.

La Casa Rossa è stata abbandonata, ma la porta è aperta. Entrateci: è piena di tesori.

 

220px-oldramonOld Ramon (2001). Posticipato di quasi tre anni per beghe legali che poi si sono protratte anche dopo la sua uscita, all’ultimo album dei Red House Painters viene imputato di essere troppo chiaro rispetto alla poetica della band, ma se non riesce a decollare è perché di fatto gli mancano le grandi canzoni, e come per il tomo che l’ha preceduto, risulta difficile arrivare in fondo una volta iniziato l’ascolto. Non una gemma che ha rischiato di non essere mai pubblicata quindi, ma un lavoro che forse ha spento definitivamente il sogno e gli entusiasmi. La nascita dei Sun Kil Moon è data dalla necessità di dover andare avanti, non dalla chiusura positiva del percorso dei RHP, di cui sono l’ideale prosecuzione.

Key Tracks: Wop-a-Din-Din; River

220px-songsforablueguitarSongs for a Blue Guitar (1996). Se è vero che Ivo Watts-Russell ha rimpianto per anni la decisione di aver tagliato i RHP dal portfolio della 4AD, lo è altrettanto il fatto che questo LP, composto e pressoché suonato dal solo Kozelek, così come è venuto fuori non poteva proprio ricevere i consensi che già erano mancati ai precedenti tentativi. L’unico pezzo che rimane in testa dopo il primo ascolto è una cover (quella di All Mixed Up dei Cars, che in fin dei conti rimarrà il brano più dozzinale mai inciso da Kozelek), mentre le uniche canzoni con potenziale melodico da svelare a poco a poco o sono trascinate all’eccesso (Make Like Paper sembra una outtake di Rust Never Sleeps di Neil Young) o non sembrano arrangiate per rendere al meglio: su tutte, la versione di Have You Forgotten presente nella colonna sonora di Vanilla Sky è troppo più coinvolgente di quella che apre Songs for a Blue Guitar. Le altre, nonostante la classe dell’autore, mancano di urgenza espressiva e appaiono ancora oggi troppo involute per darti la voglia di completare tutto d’un fiato l’ascolto del disco.

Key Tracks: Have You Forgotten; Priest Alley Song; Make Like Paper

220px-red_house_painters_bridgeRed House Painters (Bridge) (1993) Catartico, spettrale e alienante: arrivati a questo punto il profilo di Kozelek è quello di anti-eroe dark per chi è già stanco dei volti del grunge che ormai sono su tutte le copertine dei magazine più e meno specializzati. L’appendice all’omonimo (Rollercoaster) è un mini di buona qualità media, che però non sarà ricordato per nessun highlight in particolare. Più astratto e apparentemente anche po’ sardonico, rimane trascurabile se ci si vuole portare solo il meglio del meglio sull’isola deserta. Oppure, se si preferisce, allunga il primo periodo con sei canzoni (più due cover) che argomentano ulteriormente la poetica del gruppo. 

Key Tracks: Evil; Bubble

220px-red_house_painters_ocean_beachOcean Beach (1995). L’album della maturità, quello che porta già a compimento il progetto RHP, e probabilmente, osservando in retrospettiva l’intera discografia della band, anche il più sottovalutato nelle proporzioni. Si tratta infatti di uno sforzo che per lunghi tratti costeggia il confine col capolavoro in termini di songwriting, senza purtroppo lasciare l’ancora ben salda sul fondo, colpa di un mixaggio che privilegia troppo il microfono della voce a discapito delle preziose e minimali parti di chitarre, basso e percussioni. La doppietta finale non rappresenta solo uno dei vertici della carriera di Kozelek, ma anche un punto di arrivo per chiunque voglia avvicinarsi al genere sad core. Più sad ancora è il fatto che un disco del genere non sia arrivato a quelli che all’epoca avrebbero potuto e dovuto riceverlo.

Key Tracks: Summer Dress; Drop; Moments

220px-rhp-rollercoasterRed House Painters (Rollecoaster) (1993). A gennaio del 1993 i RHP hanno venti canzoni pronte da incidere su nastro. La qualità non è omogenea, per cui Kozelek decide di scomporre il blocco di composizioni in due pubblicazioni, entrambe prive di un vero titolo. Il primo dei due capitoli è quello che conta, perché contiene i pezzi migliori e perché per lunghi tratti riesce a tenere botta rispetto all’intensità del debutto. Lo spettro di stili si amplia con lo shoegaze cantato sottovoce di Mistress, con la pagina di diario dedicata a Katy (poi ricordata anche in Ocean Beach) e le ambientazioni noir di Funhouse. Forse troppa disparità fra quei cinque-sei brani effettivamente straordinari, e gli altri, buoni ma solo ordinari. Si parla comunque di un’opera d’arte.

Key Tracks: Katy Song; Mistress; Rollercoaster

220px-redhousepainters-dchDown Colorful Hill (1992). L’apice assoluto arriva con l’esordio. Poesia, urgenza espressiva, il suono già rodato da un paio d’anni di esibizioni, e soprattutto otto canzoni efficaci, di quelle che riescono sia a destare l’alternativo sensibile sia a creare il mistero intorno alla figura del protagonista, così profonda e intellettuale, e così vissuta come quella di un idolo del rock d’altri tempi. Il resto lo fanno il basso di Medicine Bottle, l’immaginario romantico di Japanese to English, e la marcia accelerata di Lord Kill the Pain, che pare uscita dalla penna di Lou Reed. Non c’è di meglio nel genere tutto e ormai si sa. Grave invece che non sia consolidato il fatto che questo in realtà è uno degli album più belli di tutto il decennio.

Key Tracks: Japanese to English; Medicine Bottle; Down Colourful Hill