Discography Ranking: Peter Gabriel

Ho capito Peter Gabriel al concerto di una coverband. Questa è la verità. Poi, una volta che mi sono appassionato alla sua discografia da solista, ho scoperto che ci sono fan che hanno perfino più pazienza di quelli dei Tool. 

Noi di DYR non siamo così ingenui però: non torniamo con un episodio della saga discography ranking per spiegare all’universo indie chi è l’artista, quanto per pura ammenda nei suoi confronti. Già perché negli anni lo abbiamo incrociato molte volte nei nostri ascolti, senza averlo mai preso realmente in considerazione. Personalmente non gli ho mai dato una vera chance, tranne quella volta in cui, convinto dall’otto e mezzo di Scaruffi, sono andato al Mediaworld più vicino – ai tempi, circa 2003, ancora molto fornito – per acquistare una copia di Passion, la colonna sonora per The Last Temptation of Christ di Scorsese. Ma non era certo quello il disco più facile per avvicinarsi. Anzi, come vedremo, quello è stato un po’ il culmine del suo percorso negli anni Ottanta. E i Genesis, all’epoca, mi sembrano fin troppo sbirulini per farmi spendere altri soldi per la carriera solista del loro primo cantante. 

Di solito pubblichiamo un ranking a cose fatte, quando siamo abbastanza sicuri che non ci saranno altri album di inediti a scombinare la classifica. Ora, essendo datato 2002 l’ultimo long playing di inediti, e Peter Gabriel ormai prossimo ai settant’anni (70, esatto), potremmo non dover più editare questo post, perché il successore di UP non arriverà mai. Tuttavia, in cuor nostro, un’opera dalla gestazione così difficile e così a lungo attesa, speriamo che alla fine esca e sia straordinaria, o quantomeno abbia dei valori da sviscerare. D’altronde artisti del calibro di Scott Walker e Nick Cave hanno recentemente dimostrato che si può produrre grande musica di base rock anche nella terza età. Insomma, se Chinese Democracy era meglio che non fosse mai arrivato, un nuovo albo del nostro Pietro Gabriele potrebbe ancora avere motivi di interesse.

Passiamo ai criteri per la classifica che segue. Abbiamo deciso di valutare solo le uscite che collezionavano musica inedita, quindi nessun live, niente cover album – in caso Scratch My Back (2010) sarebbe sicuro dell’ultima posizione – o re-incisioni di vecchio materiale, come nel caso del pur interessante New Blood (2011), che offre arrangiamenti orchestrali in una sorta di best of adatto ad essere suonato a un dopocena intellettuale, accompagnato da un bicchiere di vino buono. Ci sono invece le quattro colonne sonore, che magari si fatica un po’ ad accostare agli album di canzoni, ma che di fatto sono elementi fondamentali per comprendere l’ampiezza della paletta – e quindi la grandezza – dell’artista. È abbastanza chiaro, per quanto ci riguarda, che i migliori quattro lavori siano effettivamente quelli che trovate in fondo, scorrendo verso il basso questo ranking. C’è uno scarto piuttosto evidente con il resto della produzione. Allo stesso tempo, arrivati lì, è risultato davvero complicato stabilire quale fosse la gerarchia giusta. Ci siamo affidati al momento in cui ci troviamo come persone, e a considerazioni datate 2018, per posizionare quei dischi. Il concetto si può sciogliere dicendo che quei quattro lavori non possono davvero mancare in nessuna discoteca rock che si rispetti. Puoi essere passato all’elettronica più spinta, all’indie folk suonato da un barabba eremita in cima al Gennargentu, ai concerti di classica a teatro assieme ai tuoi genitori, al jazz datato entro il 1959, al black metal made in Carelia, ai cosiddetti altri suoni, ma non importa. Quei quattro album devi conoscerli e rispettarli.


10. OVO (2000). Un progetto che si rivela più grande di un pur grande artista. Talmente esagerato nelle dimensioni che sfugge al controllo e risulta mal concepito, oltre che frammentario. Va un po’ meglio quando le atmosfere si dilatano, ma l’ampio cast di ospiti (tra cui si ricordano in particolare Elizabeth Fraser e Neneh Cherry) e la produzione non uniforme, in cui mettono mano in troppi, scompongono l’opera al punto di renderla incomprensibile. Si può scartare.

Key Tracks: Low Light, The Nest that Sailed the Sky.

09. Birdy. Music from the Film (1985). Solo in penultima posizione perché oggi risulta tappa intermedia del percorso che è poi culminato con Passion, e quindi opera interessante solo per completisti (alcune delle strumentali sono in realtà riletture di brani già pubblicati nei tomi precedenti) e appassionati del lato più etnoworld dell’artista. Presa fuori dal contesto del ranking, tuttavia, si ascolta con più piacevolezza di buona parte del materiale del secondo periodo.

Key Tracks: Slow Water, Quiet and Alone.

08. Peter Gabriel 2 (Scratch) (1978). Ovvero l’albo della confusione d’intenti, quello in cui non sa dove andare a parare. Trova un art pop inconcludente, che scimmiotta Bowie e non riesce a fare tesoro della qualità degli strumentisti che lo circondano, e della produzione di Robert Fripp, evidentemente in parte colpevole. Non funziona né quando vuole suonare orecchiabile a tutti i costi, né quando prova a fare l’introspettivo. Per fortuna poi ha ripreso la strada giusta. Tanti, da passi falsi del genere, non si riprendono più. 

Key Tracks: Exposure, D.I.Y.

07. Up (2002) – Quello che ad oggi è il suo ultimo disco vero e proprio, soffre degli stessi difetti del precedente US, perché non fila mai abbastanza liscio, e ogni flusso sonoro finisce per intricarsi troppo, sino a perdere piacevolezza di ascolto. Le tracce, pur essendo troppo lunghe e involute, offrono ancora lampi del genio che fu, in particolar modo nelle tre che evidenziamo di seguito. Il suono è al passo coi tempi e il concept generale ha vari spunti da cui Peter potrebbe ripartire per un (ultimo) nuovo album, peccato solo per tutta la ridondanza che complica Up senza permettergli di raggiungere, in un momento propizio, un pubblico molto più vasto come quello di Radiohead e U2 degli anni Novanta. 

Key Tracks: My Head Sounds Like That, I Grieve, No Way Out.

06. US (1992). Dopo il successo planetario di So e la colonna sonora di The Last Temptation of Christ, Gabriel sceglie di non insistere con lo studio della musica etnica e la sua ibridazione con il pop, per pubblicare un albo più atmosferico e dal sound moderno, ma comunque avventuroso e pieno di sfaccettature, seppur non sempre ben giustapposte nel contesto degli arrangiamenti. Profondamente influenzato dal sofferto divorzio dalla ex moglie, Us è l’opera più personale dell’artista inglese e per quanto all’epoca viene considerato una mezza delusione, nel tempo ha acquisito maggiore fascino e ha scalato qualche posizione nella lista di gradimento dei fan.

Key Tracks: Digging in the Dirt, Blood of Eden, Come Talk to Me.

05. Peter Gabriel 1 (Car) (1977). È il primo volo solistico, e mette subito in chiaro le intenzioni di Gabriel, che si serve delle maestranze di gente come Robert Fripp e Tony Levin per mostrare al mondo la sua ampia paletta artistica. Proprio questo si può imputare al pur freschissimo debutto solista: c’è un po’ troppa voglia di dimostrare quanto necessaria fosse l’uscita dai Genesis e soprattutto quanto egli sia capace di abbracciare differenti stili musicali. Per quanto apprezzabile in termini di audacia, nel primo omonimo manca coesione (o coerenza?) tra le varie tracce, e si finisce per tornarci solo per ascoltare singoli brani, volta per volta. Resta da evidenziare, ad ogni modo, il suono modernissimo che propone nell’anno della rivolta punk. 

Key Tracks: Here Comes the Flood, Solsbury Hill, Modern Love.

04. Passion. Music for the Last Temptation of Christ (1989). Per alcuni, Scaruffi in testa, il vero opus magnum di Peter Gabriel, che tuttavia va contestualizzato su due livelli: dentro al film di Scorsese, e nell’epoca della world music in cui compare. Se è vero che quasi nessuna colonna sonora riesce a stare in piedi da sola, quella di Passion presa separatamente offre uno spaccato (e il culmine della ricerca sulla world music di Gabriel) molto concreto di quello che può significare il riunire in uno studio di registrazione professionistico dei santoni della musica etnica, al tempo non ancora compromessi dall’amicizia speculativa con l’uomo occidentale, che altrimenti in genere sembra volerli avvicinare più per apparirvi in mezzo egli stesso e fare il figo dalle ampie vedute, che non per reali ragioni artistiche. Al contempo, per quanto la musica registrata da Peter Gabriel e David Bottrill non possa essere modernizzata per sua ragion d’essere, ne va valutato il valore anche in funzione del periodo storico in cui è pubblicata (altissimo, in caso) e in qualità di documento-manifesto per due categorie musicali: la world music, e la colonna sonora per un film. In entrambi i casi, Passion appare ancora oggi come un autentico capolavoro.

Key Tracks: A Different Drum, Passion, Bread and Wine.

03. Peter Gabriel 3 (Melt) (1980). L’album con cui Gabriel spicca il volo e in cui trova la formula per entrare nella storia del rock anche da solista. Oltre a contenere alcuni dei pezzi più noti dell’ex Genesis, è il primo a denotare la propensione verso un linguaggio sonoro multiculturale, che non fosse solo figlio del pop d’avanguardia del periodo o la somma delle maestranze dei turnisti che prestano la loro abilità tecnica. In questo senso sono probabilmente Biko e Games Without Frontiers i brani che segnano la svolta verso un approccio più internazionale al pop, non tanto per il loro sound, quanto per il successo mediatico e commerciale che ottengono. Gabriel ne comprende la portata, e decide di avanzare in quella direzione. Eh no, David Byrne un disco solista così non ce l’ha. 

Key Tracks: Games Without Frontiers, Biko, Intruder.

02. So (1986). Ovvero la quintessenza dell’art pop anni Ottanta, se non addirittura uno dei dischi più iconografici di tutto il decennio. Lo produce Daniel Lanois che riesce nell’arduo tentativo di amalgamare bene assieme le performance della miriade di ospiti illustri che vi partecipano, aggiungendo ingredienti e colori ad arrangiamenti formalmente perfetti. Lanois arriva al risultato migliore possibile perché il songwriting di Gabriel raggiunge i suoi massimi livelli nel 1986, e perché l’affiatamento con i fidi David Rhodes (chitarra) e Tony Levin (basso) è finalmente ottimale. Difficile chiedere di più a un disco mainstream: So mette d’accordo sia l’ascoltatore più esigente, che presta attenzione ai dettagli tecnici e alla ricerca del suono, sia chi dal pop vuole principalmente buone melodie, e il resto mancia. Selezionare solo tre tracce da questo album è davvero cosa ingiusta.

Key Tracks: We Do What We’re Told (Milgram’s 37), Mercy Street, In Your Eyes.

01. Peter Gabriel 4 (Security) (1982). La vetta più alta raggiunta da Peter Gabriel. 4 è un disco che si potrebbe definire antropologico, tanto è profonda e multidimensionale la poetica da cui nascono le canzoni, e tanto vari e filosofici sono i temi che queste affrontano. Risulta anche reperto di modernità pop, visto che è uno dei primi album rock della storia ad essere completamente registrato in digitale. Oggi il suono appare industriale, metallico e fin troppo compresso rispetto al potenziale che potrebbero esprimere alcuni degli spartiti, ma continua a piacere così com’è, con tutti i limiti che lo identificano con il periodo dell’uscita. I momenti di più facile presa fanno da specchietto per le allodole: Shock the Monkey e I Have the Touch ti trascinano dentro a un’opera tetrissima che solo negli anni ha assunto il meritato status di capolavoro. Una pietra preziosa che, come buona parte della discografia di Peter Gabriel, è il caso di riscoprire e indossare nuovamente.

Key Tracks: San Jacinto, Lay Your Hands on Me, Wallflower.