Black Country, New Road – Ants From Up There

Black Country, New Road – Ants From Up There

A costo di risultare incoerente vorrei iniziare con una sottile provocazione, dati gli elogi spesi (sì, anche qui) verso una realtà così promettente. Potendo fare un passo indietro probabilmente valuterei al ribasso il debutto dei Black Country, New Road.

Le motivazioni non sono prettamente legate alla qualità del disco in sé, ma alla formula che vi era messa in atto. Se da un lato continuare a sognare che un pugno di sbarbatelli possa reinventare le sorti di un genere in voga da cinquant’anni sembra una speranza da talebani, l’altra faccia della medaglia vede noi ascoltatori come esseri spesso guidati da tutto fuorché dal raziocinio, perciò incapaci di prendere le distanze da determinati scenari.

Al momento dell’uscita dell’esordio l’entusiasmo era alle stelle, come non succedeva da troppi anni; dunque, ci siamo fatti comprensibilmente ipnotizzare dalla brillantezza di un prodotto a cui però mancava qualcosa che sul momento non eravamo stati in grado di cogliere come una mancanza.

Ai Black Country, New Road non era però lecito chiedere un rimescolamento delle carte in tavola à la Remain In Light, ad esempio, bensì un tentativo più coraggioso di scostarsi dal revivalismo che affligge una larga fetta dello sfiduciato panorama contemporaneo.

In Ants From Up There gli arrangiamenti si fanno più variegati e ciò assume un ruolo centrale rispetto a quanto avveniva in For The First Time, dove il tutto si limitava ad arricchire la proposta, senza far sì che quest’ultima ruotasse attorno all’eterogeneità del parco strumenti. Le melodie di matrice chamber pop sono più di una semplice influenza, e hanno modo di dispiegarsi al meglio in frangenti come il singolo “Chaos Space Marine”, dall’incedere barocco, o in “Good Will Hunting” (traccia di per sé alquanto fiacca se rapportata al resto della scaletta), il cui controcanto ricorda quello della prima Régine Chassagne, musa dell’ormai ex gallina dalle uova d’oro targata Arcade Fire.

“Mark’s Theme” separa quel che sarebbe stato ugualmente valutato come un disco di livello dal commovente trittico conclusivo, apice della breve carriera della formazione che tanto ha saputo farsi apprezzare in questo biennio. Si tratta di brani che sanno di commiato, il che lascia il rimpianto di non aver potuto godere più a lungo delle gesta della formazione di partenza, ma la sensazione di vuoto che incombe una volta portato a termine l’ascolto è sufficiente per spiegare la portata del progetto, peraltro manifestatasi in un lasso di tempo così esiguo.

Il precedente riferimento alla natura transitoria della carriera del gruppo non è purtroppo riconducibile a semplici incongruenze artistiche; da circa una settimana i fan hanno dovuto assimilare il fatto che Isaac Wood non farà più parte dell’ensemble per ragioni di carattere psicofisico. Ciò ha alimentato l’attesa verso il nuovo imminente LP, che cominciava ad assumere una dimensione non radicata unicamente al fattore sonoro, bensì una quasi tangibile, umana in definitiva.

Spero di non essermi lasciato accecare dalla forte emotività in gioco e di aver reso l’idea dell’ascolto integrale di un albo autentico, sentito, in cui non capita di imbattersi sistematicamente. Spetterà alla comunità di appassionati non archiviare quanto composto come il frutto di una semplice meteora, ma come uno dei tentativi più credibili di riportare in auge un genere inariditosi oltremisura nell’ultimo lustro.