La distanza che “Adriatic” pone fra sé e la canzone a seguire, l’immensa “Carbonated”, è abbastanza consistente da introdurci ad un momento di sperimentazione mai fine a se stessa, quanto piuttosto capace di rivelarci un ordine sonoro inedito e ineguale: la novità passa attraverso la redefinizione delle forme e dei linguaggi, in un atteggiamento ritmico e melodico che, se da una parte non lesina ad un colloquio con ciò che si è già fossilizzato come tradizione, dall’altra parte non si vergogna di esprimersi come traduzione in atto di un concetto di musica elettronica altamente contemporaneo, estremamente contemporaneo. Nell’anno 2010, il mutismo della forma elettronica si rianima di impulsi e vibrazioni che nell’atto di ridipingere le differenti emozioni di un ascolto trova una voce intrigante capace di comunicare a tutti i livelli: la mira è alta alla testa, la mira è bassa alla pancia. Come una rissa in galleria di boccioniana memoria, così la forza dinamica si proietta contro l’ascoltatore cercando un impatto refrigerante che l’electro non sempre riesce a trovare; i Mount Kimbie si concentrano su quegli stilemi che, come detto sopra, avevano la necessità di essere ri-detti per poter ritrovare vigore e senso. “Would Know” allora è davvero l’intreccio di glo-fi e dubstep, ma lo è senza mostrarlo, perché nella canzone-scatoletta mountikimbiana manca l’aria, lo spazio per il pensiero e il caso sembra davvero spazzato via dai dadi solo per tornare come asse centrale di un nuovo ragionamento artistico: fra una miriade di idee e di colori, il duo inglese ha scelto la strada dell’asfissia, del sottovuoto, della scatoletta di latta. E come è noto, quando manca l’aria (“Ruby”) la si cerca in ogni angolo, fino ad accartocciarsi su se stessi, a piegarsi; si ri-vende l’anima al diavolo e da un patto nato dalla mancanza nascono canzoni non regolari, brevi, secche e piene di pustole sonore, bubboni che scoppiano oltre al glo-fi, spinte neofaustiane che dicono più dell’IDM. Rimangono, tuttavia, tracce dove rarefatte atmosfere indie-cano orizzonti di fruizione più estesi, oltre al pubblico fanatico di beats&beeps, come “Ode to Bear”, che fa a livello elettronico quello che The XX hanno fatto a livello rock: il remix di “Islands” non nasce dal niente, il tour insieme parimenti.
Poi in chiusura arrivano “Field” e “Mayor”, altre piccole scatolette di latta-canzoni dimenticate su uno scaffale-album, che puzzano di materia tanto quanto le singole componenti già prefigurano, prima ancora di essere colte nella propria interezza, tutte le sfumature del collage che esemplificano. E l’attenzione non cala mai, anche quando un ascolto sembra illuderci che le canzoni non siano poi così lunghe; ma è appunto un’illusione, perché quando l’album finisce magicamente ricomincia ancora, come una linea ininterrotta, perché il loop vive a livello assiologico, di album, non di traccia: ancora una volta è l’asse ad essere rivoluzionario, e non solo in astronomia. Dall’incipitale “Tunnel Vision” alla conclusiva “Between Time”, questo disco altro non è che un virtuosistico gioco di parole: uno sguardo dentro un tunnel per capire quello che sta fra il tempo: come in una Wunderkammer, una scatola delle meraviglie, tanto piccola quanto colma di un horror vacui assolutamente contemporaneo, l’ascoltatore è guidato a cogliere l’inter-tempo a livello ritmico. Siamo già oltre il dubstep e il suo accento temporale: siamo oltre le porte del futuro perché siamo esattamente sulla soglia fra due porte.
85/100
Mount Kimbie
Crooks & Lovers
2010 • new step
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